Itinerari

 

ITINERARIO FUORI PORTA
Chiesa di San Claudio al Chienti                  

Un lungo viale ombreggiato da maestosi cipressi, conduce dinanzi a questo singolarissimo esempio del romanico italiano. Ci troviamo in presenza di “un caso unico, in cui il modello germanico della ‹‹cappella a due piani›› assurge a scala monumentale”, per dar vita ad una chiesa doppia sovrapposta coperta con volte a crociera. Edificio sacro tra i più antichi esistenti nelle Marche, costituì la pieve più settentrionale della diocesi di Fermo e venne eretto – secondo la tradizione – sulle rovine di un precedente impianto databile al V-VI secolo.
Il luogo di culto è situato nell’area archeologica della città romana di Pausulae,che nel 465 risultava essere sede di una diocesi; esso è comunque sorto in un’epoca successiva all’abbandono dell’insediamento da parte dei suoi abitanti, quando la diocesi di riferimento di questo territorio era già quella di Fermo.
Stando alle attente ricerche effettuate da Hildegard Sahler, la chiesa risalirebbe al tempo del vescovo fermano Uberto (doc. 996-1044). Alcuni caratteri stilistici la circoscriverebbero al periodo compreso tra il 1010 e il 1040; va però detto che l’utilizzo degli archi falcati e dei contrafforti a sperone, ad esempio, rimandano a tutto l’XI secolo. Inoltre è necessario tenere in considerazione anche degli episcopati più tardi come quello di Udalrico (1057-1074) che, tra l’altro, nel 1060 era impegnato a recuperare terre tra il fiume Chienti e il torrente Trodica, per conto dell’abbazia di Sant’Apollinare in Classe. Senza mai abbandonare le dovute cautele, si può dunque ipotizzare che il manufatto risalga “grosso modo” agli anni Sessanta dell’XI secolo. La prima citazione attendibile è comunque datata 1089, mentre per il palazzo vescovile è necessario attendere il 1254.
L’aspetto attuale della struttura è frutto dei restauri e dei rimaneggiamenti che si sono succeduti già a partire dal XII-XIII secolo e, in proposito, vanno ricordate le distruzioni arrecate dai maceratesi nel corso del Duecento. Dalla documentazione esistente si evince che il livello superiore ebbe la funzione di cappella vescovile; quello inferiore fu invece adibito a chiesa per i fedeli e dedicato a San Claudio, martirizzato nel 306. Annoverato fra i quattro Santi Coronati – protettori degli scalpellini e dei muratori – quest’ultimo compare “armato” di squadra, cazzuola e martellina, in un affresco di probabile scuola umbra (1486) visibile nell’abside principale. La sua immagine è affiancata da una raffigurazione di San Rocco, protettore contro la peste. 
Nuda ed essenziale, la facciata dell’edificio è caratterizzata da due torri cilindriche – risalenti alla prima fase costruttiva – aperte in alto da bifore e monofore. Il portale in calcare della chiesa superiore venne realizzato nel XIII secolo, quando furono aggiunti lo scalone, il balcone e l’atrio sottostante. Le absidi sono dieci (cinque per piano), anche se osservandole dall’esterno sembrano cinque, essendo state costruite “a tutta altezza fin quasi alla linea di gronda”.
L’interno è pervaso da un’atmosfera solenne ed austera. Entrambi i livelli presentano un’unica grande aula, con quattro massicci sostegni centrali che nel piano inferiore sostengono nove volte a crociera; nel piano superiore, le volte si sono conservate soltanto nella navata sud, mentre le altre due navate sono coperte con tetto a capriate. La struttura custodisce alcuni reperti di età romana rinvenuti nella circostante area archeologica; i manufatti sono collocati dinanzi alla facciata (precisamente ai piedi e a ridosso dello scalone), al di sotto dell’atrio e all’interno delle due chiese.
Sebbene il titolo di abbazia venga spesso associato al luogo di culto, gli scritti fin qui pervenuti attestano – senza ombra di dubbio – che quest’ultimo sorse come pieve e che mai fu retto da un abate. Secondo una discussa teoria, sembrerebbe inoltre che l’odierna San Claudio altro non sarebbe se non la potente Aquisgrana dell’epopea carolingia.

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ITINERARI NELLE CAMPAGNE
Le case di terra e paglia      
                            

Le Marche rientrano in un ristretto gruppo di regioni italiane, nelle quali, ancora oggi, sopravvive un numero significativo di edifici in terra cruda: la Provincia di Macerata, in particolar modo, ne conserva una quantità non trascurabile, distribuita in una fascia collinare che va dai 50 ai 350 metri sul livello del mare. Nel 1986, ad esempio, il territorio comunale di Corridonia ospitava ben 35 case di terra (o atterrati), ridottesi a 26 nel 2001. Tra queste soltanto alcuni esempi possono vantare un discreto stato di conservazione. Nelle Marche tali strutture si diffusero, sostanzialmente, a partire dalla seconda metà del Settecento e conobbero un vero e proprio boom edilizio nel corso dell’Ottocento, quando nelle campagne intervenne un peggioramento delle condizioni di vita. Fu così che all’interno del panorama regionale crebbero soprattutto due figure: quella del contadino povero, la cui proprietà presentava dimensioni piuttosto modeste, e quella del bracciante agricolo che, lavorando solo saltuariamente, a malapena riusciva a cavarsela. La prima categoria abitava edifici in crudo che mostravano le stesse caratteristiche di una comune casa colonica in laterizio, mentre le dimore del bracciante – che venivano allineate le une alle altre in modo tale da formare un complesso a schiera – erano più essenziali dovendo rispondere alle sole necessità di alloggio e ristoro. A Corridonia questa seconda tipologia è riscontrabile in un unico caso (atterrato di Via Zegalara).  La tecnica costruttiva prevedeva lo scavo di un’ampia buca, nella quale si mescolavano terra locale, acqua e paglia direttamente coi piedi. Quando l’impasto aveva raggiunto una consistenza morbida e uniforme, le donne lo trasformavano in tanti piccoli massi, da collocare in ordine sovrapposto lungo il perimetro del nascente fabbricato. L’edificio veniva poi dotato di un tetto a capanna dalle falde particolarmente sporgenti, atte a proteggere le pareti dal dilavamento. Purtroppo la casa di terra è spesso trascurata dai suoi proprietari, per i quali, a volte, essa rappresenta il ricordo di un’epoca condizionata da arretratezza e povertà. Al contrario, l’umile atterrato costituisce – oltre che una pagina di storia della civiltà contadina – un esempio reale di abitazione bio-ecologica, in cui era e sarebbe tuttora possibile “vivere bene rispettando l’ambiente e se stessi”.

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ITINERARIO EXTRAURBANO
Chiese, Monasteri e Ville

L’ex convento dei Frati minori dell’Osservanza, chiamati anche gli Zoccolanti, con l’annessa chiesa della Madonna dei Monti sorge su una collina a trecento metri dal centro abitato di Corridonia. Da sempre l’edificio è conosciuto come gli Zoccolanti. Il curioso nome gli venne affibbiato nel 1386, quando alcuni frati, stabilitisi nella zona boscosa di Brugliano, in Umbria, avevano ottenuto il permesso di calzare zoccoli di legno, per difendersi in qualche modo dai serpenti che infestavano la zona. Essi a Pausula venivano cosi chiamati anche per il tipico rumore che gli zoccoli facevano sui san pietrini del centro. Il cenobio, composto da un chiostro cinquecentesco e la chiesa nel medesimo stile, è stato edificato nel 1510 e fu scelto dai frati, che prima risiedevano in una casa di fronte a Santa Maria in Castello, perché il nuovo alloggio era vicino alla cittadina ma adatto al riposo. Ben presto il monastero si impose come uno dei più importanti della provincia anche perché i Frati Minori Osservanti vi organizzarono uno Studio (Università) che attraeva nomi facoltosi. Fino alla fine del 1600 il convento godette di un periodo di grande splendore, ma dopo una pestilenza che decimo la popolazione  e  un disastroso terremoto nel 1703 subì gravi danni. Dopo queste calamità a causa della povertà che seguì gli Zoccolanti persero il loro antico splendore e molti giovani dovettero interrompere i loro studi. Durante il periodo napoleonico il convento fu soppresso. Gli orti e il fabbricati furono venduti dal Demanio al marchese Clemente Ugolini. Nel 1843 i frati riuscirono a ricomprare dal marchese il convento pagando una somma cospicua. Nel 1860 in esecuzione del decreto Valerio la proprietà del convento passò alla cassa ecclesiastica. Il comune comunque concesse ai monaci di continuare a far vita comune negli Zoccolanti almeno fino alle leggi di soppressione degli ordini religiosi del 1866-67. All’inizio del 1867, loro malgrado, i francescani furono costretti a lasciare la loro dimora. Dal 1909 il cenobio fu utilizzato per usi più disparati tra cui la coltivazione del baco da seta. Nel 1917 dopo la sconfitta di Caporetto, l’edificio ospitò centinaia di profughi provenienti dalle province di Udine, Gorizia e Belluno che si sistemarono alla meglio nei locali dove rimasero per quindici mesi. Dopo la seconda guerra mondiale le stanze furono nuovamente rimaneggiate per ospitare molte famiglie provenienti dal litorale e continuo ad ospitare le famiglie più bisognose fino a che negli anni ’60 non vennero costruite le prime case popolari. La Villa Fermani è una dimora storica dell’800 acquistata dal Comune nel 1894, anno della morte del proprietario, il sindaco David Fermani. Negli anni la Villa e soprattutto il parco, sono diventati un ritrovo e uno dei punti d’incontro degli abitanti di Corridonia. Santa Maria del Paradiso fu edificata nel 1480 nel luogo dove sorgeva un’antica immagine, racchiusa in una edicola, detta di S. Maria del Paradiso. Il decreto di costruzione fu emanato dal cardinale Francesco Piccolomini il 3 maggio 1480. Per la consacrazione ufficiale Montolmo fu bandita a festa con una fiera gabella della durata di 16 giorni, numerose manifestazioni popolari e un’indulgenza plenaria di 100 giorni ai pellegrini in visita. Il Comune partecipò alle spese di costruzione e ne affidò la gestione ad un consiglio di 12 cittadini. Venne anche fissata la data dell’8 settembre, festività della Natività della Madonna,  come festività ufficiale della Chiesa. Nel 1495 il comune affida la chiesa dell’ordine dei frati Gerolomini e vi edifica un convento che venne abbandonato intorno alla metà del XVII secolo. Nel XVIII secolo la chiesa, caduta in miseria, è chiusa e lo stato di abbandono aumenta con il passare degli anni. Alla facciata del XVII secolo viene aggiunto un portico in arenaria che, a causa dell’abbandono, crolla come buona parte del portale originario. Nel 1986 vengono effettuati alcuni lavori di restauri che hanno come scopo quello di conservare gli elementi dell’antica struttura. L’interno della chiesa è ad un’unica navata, le pareti sono disadorne, parte del soffitto è a travature in legno a vista: all’altezza dell’altare due piccole finestre. Una massiccia inferriata del ‘600 preclude l’accesso alla cappella a volta, la quale ha nel centro della parete di fondo una nicchia affrescata con immagine di una Madonna con Bambino. L’affresco è quello dell’originaria edicola Nel 1996 lo scultore maceratese Sesto Americo Luchetti (1909-2006) realizza per questa chiesa una pregevole porta in bronzo modellando sulle due ante venti episodi del Vecchio testamento. La Chiesa di Santa Maria di Pacigliano inizia la sua storia nell’VIII secolo, quando Faraoldo II – duca di Spoleto – donò svariati possedimenti al monastero di San Pietro di Ferentillo (TR): pare che tra questi figurasse anche la chiesa in questione. Una carta datata 1231 attesta inoltre che papa Gregorio IX confermò all’abate di San Pietro la giurisdizione su vari centri religiosi, fra i quali Santa Maria di Pacigliano che divenne parrocchia nel 1781. L’edificio sacro ha perso il suo aspetto originario; possiamo ipotizzare che l’odierna struttura risalga al periodo in cui fu istituita la parrocchia. Il campanile, che custodisce tre campane datate 1630, 1632 e 1634, è stato invece eretto nel 1932. L’interno vanta una sola navata coperta con soffitto a capriate lignee; sull’altare maggiore è visibile un dipinto di autore ignoto raffigurante la Sacra Famiglia e San Giovannino (sec. XVII-XVIII). Si segnala la Via Crucis in terracotta, formata da quindici formelle poste in successione su fascia unica: realizzata nel 1998 da Sesto Americo Luchetti, venne donata dal parroco don Vincenzo Cappella in occasione del suo 50° anno di sacerdozio.

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ITINERARIO PER LE MURA CITTADINE
Il sistema difensivo 
              

L’ultimo “aggiornamento” della cinta muraria di Montolmo venne effettuato intorno alla metà del ‘400 per volere dello Sforza che, oltre a sostituire la merlatura esistente, fece costruire delle “scarpate” e dei nuovi torrioni. Secondo alcuni, in origine il circuito fortificato doveva essere protetto da un fossato: a conferma di ciò si segnala la presenza dell’incasso in cui alloggiava il ponte levatoio, presso Porta Santa Croce. Quest’ultima fu edificata nel 1252, ma assunse le attuali forme all’epoca dello Sforza, quando rinacque munita di più “moderni” attributi. Alla base s’apre l’arco a tutto sesto che dava accesso all’abitato, mentre il piano intermedio era destinato ad accogliere i bombardieri e gli archibugieri. Si evidenzia l’apparato sommitale ancora provvisto di beccatelli, caditoie e coronamento merlato alla guelfa. Inoltrandosi lungo Via Ciaffoni si giunge in breve dinanzi a Porta San Pietro che, essendo di antichissima fondazione, a seguito dell’espansione urbanistica rimase inglobata all’interno del castrum, nel corso del XIII secolo. Il manufatto è stato ampiamente rimaneggiato e l’odierno arco a tutto sesto potrebbe essere frutto di un restauro; non si esclude inoltre, in considerazione del dislivello, che la porta fosse preceduta da un ponte levatoio. Proseguendo per un centinaio di metri lungo Via Ciaffoni, raggiungiamo la cosiddetta Porta San Donato Vecchia, della quale residuano la porzione inferiore della torre e un interessante arco a sesto acuto. Un tempo era denominata Porta Castello, perché situata in prossimità di una struttura fortificata di origini medievali, demolita in epoca fascista. Anche in questo caso, un non trascurabile dislivello lascia presumere l’esistenza di un ponte levatoio. Scendendo lungo Via Diaz per poche decine di metri, usciamo dal circuito difensivo varcando Porta San Donato, risalente al 1252. Il corpo originario è stato ampiamente rimaneggiato e attualmente possiamo osservare una sorta di ibrido: un arco ogivale con doppia ghiera in cotto – realizzato verosimilmente nel periodo tre-quattrocentesco – sormontato ed affiancato da elementi architettonici di gusto barocco databili al XVII secolo. Procedendo lungo Viale Italia e superando il Distretto Sanitario, giungiamo presso Porta Romana, dalla quale nel 1433 penetrarono le truppe di Francesco Sforza. Per lungo tempo venne chiamata Portarella e ancora oggi è questo il suo più comune appellativo: con ogni probabilità, in origine dovette essere la minore delle porte urbiche, mentre il monumentale fabbricato odierno è stato edificato nel 1790 su disegno di Giuseppe Valadier. Imbocchiamo infine Viale IV Novembre e proseguiamo fino ad arrivare dinanzi a Porta Trento, completamente ricostruita nel 1811 dall’architetto montolmese Antonio Mollari. Nulla rimane dell’antica struttura, sostituita da un fronte neoclassico forato da un grande fornice a tutto sesto.    

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