Testimonianze/personaggi

 

Corridoni, un mito che non deve morire

Ci si chiede, ancora oggi, perché e soprattutto se la figura di Filippo Corridoni possa costituire un riferimento, un modello umano, un simbolo. Tutto rema contro una tale possibilità, dal momento che sembra essersi realizzato il desiderio di Brecht: fortunati quei paesi che non hanno bisogno di eroi. E non solo per i motivi ai quali Brecht credeva. Che senso ha oggi riproporre Filippo Corridoni, la sua immagine di ribelle, di romantico rivoluzionario, di sindacalista propugnatore dell’azione diretta, di combattente ed eroe di guerra? La domanda ha un senso se e solo se nell’eccezionalità dell’uomo Corridoni, ci sforziamo di cogliere il percorso umano, così diffuso nella storia italiana, anche in quella contemporanea e non di meno in quella che il futuro saprà riservare, di tanti soggetti che sintetizzano nella loro azione, in ogni settore della vita sociale, politica, economica, quel senso della “rivoluzione” e quel sentimento dell’italianità. Chiunque innova, dall’imprenditore all’artigiano, chiunque avanza e non china la testa, dal professionista al lavoratore all’uomo di cultura ed all’intellettuale ed allo sportivo, chiunque ama l’Italia nelle sue diversità e contraddizioni, chiunque è disposto a sacrificare la sua persona per ciò in cui crede, ebbene in lui vi è Filippo Corridoni, uno dei migliori figli della terra italiana. In ogni buon Italiano troviamo  il gene del sindacalista soldato, albergano le sue contraddizioni ed il suo slancio.  Corridoni è l’Italia che non muore mai e che sa andare avanti, nonostante tutto e tutti.

Andrea Benzi
Curatore delle opere di Filippo Corridoni

 

Incontrarsi con Corridoni

Troviamoci da Corridoni, a volte era anche un “troviamoci da Filippo”. Era così, nella Parma di tanti anni fa, per me e per tanti della mia generazione. La Piazza Corridoni, dove c’era quel monumento alto che quasi non si vedeva. Anzi non era una piazza, era semplicemente un luogo, uno snodo di strade all’ingresso dell’Oltretorrente. Ci si dava appuntamento per andare a scuola insieme, poi, qualche anno più tardi, i primi furtivi rendez vous con la ragazza, la morosa. Corridoni, lui, quello storico, l’ho cominciato ad incontrare all’Università, all’esame di Storia Contemporanea, e poi con la tesi sulla storia di Parma, ma non ero proprio arrivato fino al periodo di Corridoni. L’ho cominciato a scoprire più tardi, quando la febbre della storia ormai mi era entrata dentro e allora volevo saperne di più di tutti quei personaggi…i sindacalisti rivoluzionari poi mi avevano colpito. Personaggi strani, non ce n’era più in giro, erano spariti. Perché? E poi erano veramente spariti, o agivano sotto traccia? Quell’altro monumento, quello al Partigiano era in Parma Nuova, nella parte più nobile della città, quella borghese, quella dei signori. Perché il monumento a Corridoni era nell’Oltretorrente e invece l’altro in Parma Nuova?  Non riuscivo a capire. Era una specie di contraddizione in termini.  Il Partigiano deve stare nella parte rossa, rivoluzionaria…Allora chi era Corridoni?
Improvvisamente, mentre faccio il mio lavoro di responsabile di biblioteche e di archivi, 1987, arriva la richiesta di andare ad un convegno a Corridonia. Dove? A Corridonia, la città natale di Corridoni. Ah sì. Incontro Corridoni, ma anche i corridoniani e allora comincio a capire di più. Stringo amicizie preziose, comincio a studiare il personaggio, la sua terra, la sua avventura umana, il suo mito e tutto questo mi rimanda continuamente alla mia terra, al suo mito che forse è solo dentro di me. Comincio a capire le vicende di quell’epoca ormai lontana, il sacrificio di una vita spesa per gl’altri. Mi entusiasmo. Corridoni sento che mi  sostiene con la sua carica vitale, con la sua purezza d’animo, con la sua onestà intellettuale, col suo essere felice tra gl’ultimi.  E’ un simbolo, anche se non riconosciuto come tale, di quell’unità del paese che andiamo ricercando e che oggi è così fuori moda. Un’unità auspicata dai nostri grandi e forse mai del tutto realizzata se non nel fango delle trincee, da cui Corridoni spiccò il volo per morire e per dare ad un paese la sua dignità.
Quando mi è stato proposto di curare l’apertura del museo a lui dedicato, non ho avuto dubbi, anche se la grandezza del personaggio mi faceva e mi fa tremare i polsi. Era l’occasione di incontrarlo ancora, anzi di convivere con lui, almeno per un po’. E anche di contribuire a fare uscire la sua figura da un oblio ingiusto, per recuperare, per quanto possibile, una memoria condivisa.

Valerio Cervetti
Curatore del museo Filippo Corridoni

TORNA SU

Sul monumento a Corridoni di Parma

Rivolto verso il cielo, a tredici metri d’altezza, il volto di Corridoni si vede a fatica. Le braccia aperte, con le mani che afferrano l’aria, il petto allargato e il passo interrotto, tutto questo sì che si nota, e quasi incombe sulla via Emilia, la strada maestra che segna la città. Sopra la sua stele di marmo, è impossibile non notare quella figura in bronzo per chi passeggia per Parma.
Posto subito dopo Ponte di mezzo, tradizionale confine e passaggio dalla città borghese a quella popolare, il monumento accoglie i passanti in Oltretorrente, l’antico rione che ospitava un tempo gli strati più umili della società, braccianti inurbati e lavoratori a giornata, piccoli artigiani e venditori ambulanti, muratori e facchini, operai e manovali, mendicanti e donne disposte a vendersi ogni giorno. Ieri un mondo infimo, fatto di mille mestieri, miseria e un’incontenibile rabbia sociale che di frequente si scatenava in risse, tumulti e rivolte, in un’eterna lotta contro l’altra città, quella delle strade selciate e illuminate, dei palazzi signorili e di rappresentanza, dei caffè e delle botteghe alla moda, dei monumenti e dei teatri. Oggi un quartiere in profonda trasformazione, dove i nuovi migranti, provenienti da lontano, dai paesi subsahariani o magrebini, hanno sostituito le ondate di arrivi dalle montagne, dalle campagne più povere o dalle lontane regioni meridionali. E quei nuovi arrivati, dai tratti così diversi e pure così simili, vivono a fianco di studenti universitari o famiglie di professionisti che hanno comprato, ristrutturato e rivestito di nuovo le vecchie e fatiscenti case. Vicini sconosciuti che si guardano con diffidenza, a volte con fastidio e paura.
A sovrastare tutto questo, la statua di Corridoni, imponente per collocazione, mole e forza espressiva. Eppure ignorata, esclusa dal frenetico pulsare di una città che la fiancheggia e la guarda senza capirla, inconsapevole di aver perso un pezzo di memoria. Comprendere quel monumento, la volontà politica che spinse alla sua costruzione – in quel luogo, in quelle forme allegoriche – ha significato quindi per me recuperare una parte non marginale della storia del Novecento parmense (e forse non solo parmense).
Dal 1927, infatti, quella statua rappresentò qualcosa di più del semplice omaggio che il nascente regime offriva all’interventismo del Tribuno e al suo sacrificio: essa fu l’indicatore più evidente della necessità del fascismo di “conquistare” i settori popolari della città, quelli che un tempo avevano seguito i sindacalisti rivoluzionari di Alceste De Ambris, Tullio Masotti e Corridoni appunto. Quei lavoratori che avevano fatto dei borghi e vicoli dell’Oltretorrente il laboratorio politico dell’azione diretta e che poi, nel biennio nero del 1921-22, erano rimasti impermeabili tanto alla propaganda quanto alla violenza squadrista. Anzi, vi si erano opposti tenacemente e vittoriosamente fino all’ultimo, alle giornate dell’agosto 1922 e oltre.
La celebrazione di Corridoni dunque doveva promuovere tra costoro il nuovo regime, doveva indicare comuni radici politiche e stringere un patto sociale per la “nuova patria”. All’ombra di quella statua, negli anni Trenta e nella prima metà dei Quaranta, sfilarono le nere parate a braccia tese che onoravano l’apparente intesa tra popolo e dittatura. Quella propaganda fu in parte smascherata con l’affermarsi della democrazia quando, dopo la primavera del 1945, il monumento rimase integro, inviolato dai colpi di piccone, se non per la rimozione di un piccolo fascio littorio che ne ricordava gli autori. Eppure, da allora, quell’immagine, così centrale nella storia della città subì forse uno sfregio maggiore della demolizione, fu vittima dell’oblio della memoria. Come tutta la storia del sindacalismo rivoluzionario – almeno fino a pochi anni fa, per i favori della storiografia – anche Corridoni fu dimenticato a vantaggio di altri. E quel monumento – venendo meno alla sua ragion d’essere – non testimoniò più nulla.

William Gambetta
Ricercatore storico - Centro Studi Stagione dei Movimenti, Parma

TORNA SU

Filippo Corridoni  l’ “Arcangelo sindacalista”

A novantacinque anni dall’eroica morte sul campo, il mito di Corridoni è ancora vivo e si discute in sede storiografica sulla sua posizione politica e ideologica. Si tratta, cioè, di “collocare” la sua affascinante figura, al di là di ciò che se n’è scritto e detto, da destra e da sinistra, nella storia del pensiero repubblicano italiano degli ultimi due secoli.  La sua biografia – vera avventura spirituale – potrebbe costituire, infatti, un valido esempio, un terreno d’incontro per una storia italiana, finalmente condivisa, non celebratoria storia dei vincitori, ne’ revisionistica storia dei vinti.  L’ipotesi di partenza è la sua collocazione in una linea di socialismo nazionale, che nasce con Carlo Pisacane e sfocia nell’interventismo rivoluzionario. Lo stesso Corridoni lo spiega ampiamente in un articolo della “Avanguardia” del 5 dicembre 1914 “…l’attuale guerra può spianare la via della rivoluzione sociale, eliminando gli ultimi rimasugli della preponderanza feudale, colpendo in pieno il principio monarchico, infrangendo le necessità storiche che resero possibili gli eserciti permanenti”.
Si afferma comunemente che il sindacalismo rivoluzionario italiano riprende il pensiero di George Sorel, ma, più che di dipendenza, si tratta di analogia; le radici più profonde sono, piuttosto, in Mazzini, Pisacane, Garibaldi, Oriani, ossia nel pensiero sociale e politico della sinistra nazionale italiana dell’ottocento.  La riscoperta della patria, che – come scrisse lo stesso Corridoni – “non si nega ma si conquista”, attraverso l’interventismo, trasformerà il sindacalismo rivoluzionario in sindacalismo nazionale.  La guerra, grande occasione rivoluzionaria per il proletariato italiano, costituirà altresì l’opportunità per proporsi, finalmente, protagonista della storia nazionale. Il punto d’incontro tra nazione e lavoro è qui, nella scoperta che per l’Italia la questione sociale coincide con la questione nazionale, s’identifica con essa. Nella biografia intellettuale del tribuno marchigiano, il punto d’incontro tra il primo Corridoni, pacifista, sindacalista, internazionalista e il secondo, interventista, patriota e soldato, è qui nella riscoperta della patria.
Repubblica (“ho nutrito idealità repubblicane fin dalla prima fanciullezza”, scrive a Luisa Papi, la donna amata), Democrazia diretta, Nazione armata sono i punti programmatici, sufficientemente precisi, che ci presentano l’unico Corridoni che esista. Era impossibile non ammirare profondamente una personalità così pura e generosa, una coscienza tanto adamantina, una coerenza di vita e di pensiero (ahimè sconosciuta nell’odierna “casta del potere”…) di tale rigore, che l’eroica fine, alla Trincea delle Frasche il 23 ottobre 1915, suggellerà nell’estremo gesto in cui viene raffigurato nei monumenti di Parma e Corridonia “come per andare più avanti ancora”. Tutti hanno sempre amato “l’arcangelo del sindacalismo” che è divenuto in tal modo un vero e proprio mito nazionale.
Tuttavia (o proprio per questo…) la storiografia corridoniana è ricca ma non di eccelsa qualità scientifica, a causa anche della errata convinzione che Corridoni avesse scritto e lasciato poco, troppo condizionato dalle contingenze di polemica immediata, per poter essere scientificamente rilevante. In realtà le cose non stanno proprio così. I tre volumi di scritti corridoniani che il giovane ricercatore Andrea Benzi ha raccolto e pubblicato tra il 2001 e il 2006, dimostrano la ricchezza delle letture, la vastità degli interessi e la profondità del pensiero corridoniani.
La domanda cui occorre rispondere, sul piano storiografico è oggi pertanto – al di là della banale appartenenza del tribuno alla destra e alla sinistra – qual è il posto occupato ed il ruolo svolto da Filippo Corridoni nella storia culturale, sociale e politica dell’Italia del XX secolo, ricostituendone in misura attendibile la più profonda coerenza e unità spirituale.  La statura del personaggio garantisce …che ne vale la pena

Corrado Camizzi
Presidente del Comitato Parmense dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Circolo Culturale “Filippo Corridoni” di Parma

TORNA SU

Il Monumento a Filippo Corridoni
Concezione Artistica

Ascolto ancora l’intima voce che mi rammemora le ultime pagine del sublime marchigiano e mi richiama a quell’infinito martirio che fu la nostra guerra: passione e glorificazione di popolo – fra i solchi arrossati da splendente sangue uno in alto chiama, con gli allori risorti, che tendono le braccia a formare una corona per il suo eroe  rivoluzionario.  La luce che si parte dalla “trincea delle frasche” sembra sorga dalle spoglie disperse del grande Tribuno e riceva nuova vita per l’aureola del suo splendore.
FILIPPO CORRIDONI, il Cavaliere dell’Ideale, il Dio delle folle, il Cuor dei Cuori, m’appare allora sull’espugnata trincea mentre, aprendo le braccia in santa offerta cade colpito a morte, col canto della Patria spezzato in Cuore. – Volontario della morte. – Crocifisso senza sepolcro. –
Un “inno all’anima” si eleva purissimo e lieto da quel solco baciato dal suo sangue.-
La povertà “invincibile compagna della mia non lunga vita” e “che mi riempie d’orgoglio”.
La fede – con la quale “eccomi qua pronto ad infilare ancora una volta la via Crucis per il trionfo delle mie idee immortali”;
l’amore – perché “la mia anima è incapace di odiare” e “al di là della mia penna affilata, vi son sempre le  mie braccia aperte, pronte a stringere l’avversario che si pente e si ricrede”;
la vampa – scaturita dalla sua rivoluzione costruttiva ed interventista, che, con magnifica serenità, lasciò in retaggio al palpito profondo del popolo.
Così – nel tormento dell’ispirazione – traendo origine ed espressione dell’anima di F. Corridoni, ho cercato di intenderne lo spirito e forgiarlo a monumento.
Non ho pensato all’Arte dell’Accademia od alla grandiosità monumentale, ma ho voluto sintetizzare in F.Corridoni, l’anima, il patimento, l’eroismo di una generazione; ed avvicinarmi al sentimento del popolo. Penso che non occorra una montagna di pietra e di metallo per un monumento a Corridoni. Egli se lo è costruito col suo sangue nella trincea delle frasche il Suo Monumento e la glorificazione è già sua.    L’opera deve essere, a mio avviso, simulacro di volontà energica, di umanità non rassegnata, ma tesa nello sforzo sublime del combattimento disperato.

Struttura del Monumento

Sui gradini si erge la prima parte quadrata, raffigurante la trincea e consacrata alla lotta ininterrotta del barricadiero e soldato. Quattro “fanti” fusi nel masso stesso e sorgenti dal “solco”, completano questo “basamento” che dovrà essere per lavorazione e tinta di materiale greggio, forte, severo.
L’altra parte è costituita da quattro grandi altorilievi, divisi l’un l’altro da tronche arcate latine. Raffigurano: la povertà, la fede, l’amore, la vampa.  Tutti si riuniscono nell’ ”Inno all’anima” dell’Eroe.
La sommità s’aquieta, per raccordarsi e formare una grande Ara, scintillante, le cui braccia sono costituite dalle tronche arcate.
Raggiunta questa seconda parte, che dovrà contrastare per bianchezza di marmi e finezza di esecuzione con la “brutalità” del basamento, la figura di F.Corridoni appare in tutta la drammaticità del Suo luminoso Sacrificio.
“…cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora” egli scrisse, sapendo di dover morire. E cadde colpito in fronte.
Ho visto e tracciata questa grande statua raffigurante Corridoni, nell’ultimo palpito del Suo grande Cuore e nell’ultimo eroico episodio della sua intensa ed armoniosa vita, perché da questi ebbe l’immortalità.

Mario Monguidi

TORNA SU